Soprattutto in queste ultime due settimane, probabilmente a seguito dell’ “esplosione” del food delivery, in  molti articoli e post sui social sia dedicati ai consumatori che ai ristoratori,  stanno diventando sempre più frequenti domande come: “Il virus viene trasmesso con gli alimenti? Il sushi è a rischio? E il cartone per la pizza e dunque anche le confezioni per tutto il food delivery?

Per questo ho ritenuto opportuno effettuare per voi un primo approfondimento in merito per fornirvi tutte le fonti più autorevoli ma anche il parere di chi a livello operativo si sta già occupando forzatamente di queste questioni. Per questo ho pensato di rivolgermi nuovamente ai Dott.ri Fabrizio De Stefani Direttore del Servizio Veterinario di Igiene degli Alimenti di Origine Animale e loro Derivati (SVIA) e Andrea Gazzetta entrambi medici veterinari dell’ULSS7 della Regione Veneto e rappresentanti del  SIAL¹ Veneto anche perché autori delle linee guida sul food delivery di cui vi ho parlato nell’articolo : “Food delivery ? Le buone prassi per non andare alla deriva…”

Quali sono le fonti oggi più autorevoli in merito al tema della connessione tra il possibile contagio da coronavirus e il consumo di cibi crudi o attraverso il contatto con il materiale di confezionamento dei cibi ?

Partiamo dunque dal chiedere ai referenti del SIAL quali sono per loro le fonti più autorevoli alle quali fare riferimento in materia di sicurezza , per quanto riguarda il possibile contagio da COVID -19, sia per il consumo di prodotto ittico crudo che attraverso il contatto con le confezioni del food delivery o del cibo in generale.

Rispettivamente: OMS, FWO, EFSA, BfR, (Bundesinstitut für Risikobewertung l’organismo tedesco preposto alla valutazione del rischio), FNOVI (Federazione Nazionale Ordini Veterinari Italiani) hanno pubblicato delle note che nelle quali si sostiene che non vi sono studi scientifici che confermino tale ipotesi”.

Dello stesso parere è Marta Hugas, direttore scientifico EFSA, che riferisce che “Le esperienze fatte con precedenti focolai epidemici riconducibili ai coronavirus, come il coronavirus della sindrome respiratoria acuta grave (SARS-CoV) e il coronavirus della sindrome respiratoria mediorientale (MERS-CoV), evidenziano che non si è verificata trasmissione tramite il consumo di cibi

Qual è il rischio di contagio COVID- 19 attraverso il contatto con imballi e confezioni del cibo?

 “La Direzione Generale per la Salute e la Sicurezza Alimentare della Comissione Europea, riporta che secondo uno studio recente l’agente causale di COVID-19 (SARS-CoV-2) ha dimostrato di persistere fino a 24 ore su cartone e fino per diversi giorni su superfici dure come acciaio e plastica in via sperimentale impostazioni (es. umidità relativa e temperatura controllate), non esiste prova che le confezioni contaminate, esposte a diversi condizioni e temperature ambientali, trasmettano l’infezione. 

Tuttavia, per rispondere alle preoccupazioni che il virus presente sulla pelle potrebbe essere in grado trasferirsi al sistema respiratorio (ad esempio toccando il viso), le persone che manipolano gli imballaggi, compresi i consumatori, devono aderire all’orientamento delle autorità sanitarie pubbliche in merito alle buone pratiche igieniche, compreso il lavaggio delle mani regolare ed efficace.

Un altro studio pubblicato sul New England Journal of Medicine riporta che la SARS-CoV-2 può essere rilevata:

  • negli aerosol (goccioline trasportate dall’aria inferiori a cinque micrometri) per un massimo di 3 ore;
  • su rame per un massimo di 4 ore;
  • su cartone per un massimo di 24 ore;
  • su acciaio inossidabile per un massimo di 2 giorni;
  • su plastica per un massimo di 3 giorni.

In tutti i casi, la quantità di virus presente si riduce rapidamente in poche ore nell’ambiente esterno, rendendo sempre meno probabile la capacità di dare origine ad un’infezione. La carica virale su qualsiasi superficie diminuisce logaritmicamente con il tempo; cioè il numero di particelle virali diminuisce rapidamente all’inizio e poi sempre più lentamente quando si avvicina allo zero”

L’importanza dell’analisi del rischio e della prevenzione dello stesso per il COVID-19

Dunque nonostante non esista un accordo tra i ricercatori nella definizione di una carica infettante minima nell’ambiente esterno si può dire ai consumatori e ristoratori che, come per moltissimi altri rischi nel campo alimentare, anche per il coronavirus non è opportuno parlare di rischio zero quanto di analisi del rischio e soprattutto di prevenzione del rischio . Per medici veterinari questo concetto è ben chiaro e radicato ed è alla base di qualsiasi valutazione del rischio in campo alimentare. Dunque ciò che davvero conta è che tutta la filiera, consumatore compreso, seguano le regole di buona prassi igienica (nel caso del food delivery quelle indicate nelle linee guida a voi prodotte)?

Nonostante non esista un accordo tra i ricercatori nella definizione di una carica infettante minima nell’ambiente esterno, il virus perde rapidamente la capacità di dare origine ad una infezione.

Per quanto concerne la sicurezza alimentare l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha emanato una serie di raccomandazioni precauzionali tra cui consigli di buone pratiche igieniche durante la manipolazione e la preparazione dei cibi, come ad esempio lavarsi le mani, cucinare a fondo gli alimenti ed evitare potenziali contaminazioni crociate tra cibi cotti e non.

Ma quindi anche i prodotti crudi sono sicuri? Un recente studio del 2018, ha evidenziato che i virus respiratori infettano in modo selettivo le cellule del sistema respiratorio, quindi il problema di possibile contaminazione, potrebbe venire non tanto dall’ingestione di pietanze contaminate quanto per il contatto con le mani di mucose (occhi, naso, bocca) dopo aver toccato superfici o alimenti contaminati”.

Virus di origine alimentare ci sono e ci sono sempre stati, basti pensare ai virus appartenenti alla famiglia dei noroviridae e all’agente eziologico dell’epatite A.
L’errore che si sta facendo, è quello di focalizzarsi esclusivamente sul “nome” del patogeno alimentare senza valutare in maniera critica la gestione dell’eventuale problema (azione correttiva), ma ancor prima mettere in atto tutte le azioni precauzionali (azioni preventive).
Facendo una semplice analisi del rischio e gestione del pericolo, questo “nuovo” Coronavirus, è assimilabile a quello che nel mondo HACCP è definito “hazard” ovvero pericolo, e come tale deve essere gestito”.

Quale quindi il “risk” ovvero la probabilità che questo pericolo (COVID -19) possa causare una malattia di origine alimentare?


In tutti i corsi di formazione obbligatori per gli addetti alla manipolazione degli alimenti, viene insegnato che a parità di condizioni ambientali (temperatura, umidità, più o meno ossigeno, pH, aW, residui organici) la differenza fondamentale tra un battere ed un virus, esulando da sofismi di natura filogenetica e biologica, è che i batteri, per scissione binaria, hanno capacità replicativa esponenziale a differenza dei virus che necessita di un organismo vivente che utilizza come ospite per vivere e moltiplicare essendo un organismo opportunista non indipendente.
Gli alimenti, anche se freschi, sono costituiti da cellule “morte”, che hanno perso la loro capacità moltiplicativa, quindi i virus non hanno possibilità di sfruttarne il metabolismo energetico e riproduttivo per il loro scopo, ovvero quello di mantenersi in vita e diffondersi nell’ambiente.
Fondamentale, inoltre, ricordare che patogeni alimentari, siano essi virus o microorganismi, difficilmente si trovano “a cuore del prodotto”, in quanto tale evenienza potrebbe sarebbe sinonimo di grave viremia o setticemia che avrebbe generato segnali clinici dell’animale in vita e conseguenze sui prodotti alimentari rendendoli di fatto non idonei in sede di controllo veterinario durante le visite ispettive (ante e post mortem)”
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Per quanto riguarda il sushi e tutti i cosiddetti “ready to eat”…?

Escludendo i prodotti da consumarsi previa cottura, dove il calore ha una funzione di bonifica e “sterilizzazione” dell’alimento stesso e prendendo quindi in considerazione solo prodotti da consumare tal quali (reader to eat), presi dall’emotività del momento delicato, si può pensare che gli alimenti crudi possano essere possibile fonte di contagio. Come dimostrato, il virus si trasmette mediante droplet (gioccioline) da persona a persona per contatto diretto e in indiretto.

Ed è proprio la seconda via ad essere presa maggiormente in causa; alla luce di questo, l’alimento non è da considerarsi come fonte primaria di contaminazione bensì secondaria, lo si deve considerare più come un vettore passivo, amorfo, un veicolo di possibile trasmissione ma non di amplificazione del pericolo stesso.

In maniera spicciola, solo per rendere al meglio l’idea, un alimento durante la sua lavorazione, è da considerarsi come una qualsiasi superficie di contatto sulla quale il virus potrebbe aderire una volta contaminato con gioccioline  respiratorie da parte dell’operatore. 

Qui entra quindi in causa in primis il buon senso ed in secondo luogo, ma non meno importante, l’applicazione delle famigerate Buone Pratiche di Lavorazione (GMP Good Manufacturing Practices) da parte degli operatori del settore alimentare. 

La corretta manipolazione degli alimenti, dovrebbe essere un pre-requisito, assodato ma non scontato, applicato da sempre e non riscoperto o tornato di moda durante questa calamità sanitaria. Prevenire la promiscuità tra prodotti crudi e cotti, o matrici differenti (es. carne, pesce, verdure,e tc), lavorazioni differite nel tempo, utilizzo di locali e/o attrezzature dedicate, corretta applicazione delle procedure di sanificazione, utilizzo di cuffietta, mascherina, davantini monouso o divise pulite, guanti durante la lavorazione di prodotti crudi soprattutto per quelli più deperibili o appartenenti alla categoria ready to eat, sono capisaldi, assiomi da applicare sempre e da sempre, senza abbassare la guardia.
Si ricorda che tutti quei contaminanti provenienti da materie prime, operatori, attrezzature e cross contamination varie non sono passati di moda: E.coli, enterotossine stafilococciche, Salmonelle e Listeria monocytogenes, non sono “andati in ferie”.”

Ringrazio i Dott. ri De Stefani e Gazzetta per le preziose informazioni fornite e con questo nuovo articolo speriamo di avere dato ai nostri lettori  chiarimenti utili in merito ai temi trattati e sui quali torneremo nuovamente anche con ulteriori approfondimenti e pareri. Per questo vi chiediamo di scriverci numerosi un vostro commento.

Valentina Tepedino

Medico veterinario specializzata in prodotti ittici. Direttore del periodico Eurofishmarket, referente nazionale della SIMeVeP per il settore ittico e docente a contratto presso l’Università di Medicina Veterinaria di Bologna

Sitografia:

¹SIAL Veneto cos’è e perché ? 

Ce lo spiega il Dott. De Stefani : “SIAL Veneto non è altro che un alias che da maggio 2015 consente a me e ad alcuni miei collaboratori di promuovere la cultura della sicurezza alimentare in modo agile sfruttando una piattaforma social professionale come Linkedin. Conta oltre seimila contatti e pubblica i suoi articoli (366i ad oggi) prevalentemente sul gruppo Linkedin Food and Veterinary Law – Diritto alimentare e legislazione veterinaria, compresa una rassegna normativa settimanale che può essere scaricata daSlideshare e Scribd, e che inviamo per e-mail ad oltre mille richiedenti esperti in diritto e sicurezza alimentare. In pratica il SIAL è un  “Open-Source Consultant” perché pensiamo la conoscenza sia l’unico valore che chiunque può cedere gratuitamente ad altri senza che ciò li impoverisca di alcunché”.